domenica 15 settembre 2019

La notte delle beghine

dipinto di Rogier van der Weyden

Le donne durante il Medioevo vivono sotto la tutela di un uomo o finiscono in convento. Il beghinaggio rivoluziona l'immagine della donna, chi entra nel "beghinaggio" (case o conventi) non è vincolato da voti permanenti. Le donne, ad esempio, possono lasciare il beghinaggio per sposarsi, altre vi entrano con i bambini.

Le beghine si dedicano alla castità e alla carità. Inizialmente sono accettate dalla Chiesa, tuttavia, con il passare del tempo, il loro modo di fare non piace alla gerarchia ecclesiastica. Le donne, in poche parole, non possono decidere della propria vita. In realtà, ci sono anche i begardi, che, come le beghine, hanno scelto una vita morigerata e priva di voti.
Intorno al XII secolo, nei paesi del nord Europa, per volontà di gruppi benestanti, nascono queste case rifugio. Il termine “Beghinaggio” si diffonde nel XV secolo.
Le donne vivono indossando abiti umili, prendendosi cura dei bisognosi e dedicandosi alla preghiera. Non hanno regole precise, ed è per questo motivo che la Chiesa le guarda con sospetto e spesso le considera eretiche.
La parola “beghina” diventa un termine peggiorativo, e ancora oggi non si conosce l’esatta origine etimologica. Alcuni pensano che il vocabolo “beghina” derivi da un prete, Lambert le Bégue, al quale si dà il merito della nascita del beghinaggio, altri ancora credono che il termine voglia dire “pregare” (beggen).
In questo momento, nel XIII secolo, la Chiesa è prudente. Nel 1215, il Concilio Lateranense proibisce la creazione di nuovi ordini religiosi. Jacques de Vitry, uno dei difensori del beghinaggio, ottiene, nel 1216, dal Papa un’autorizzazione “a voce”.
I fratelli e le sorelle del libero Spirito (di cui parlerò in futuro) vengono considerati eretici da Papa Clemente V, di conseguenza le beghine, sospettate di aver intrattenuto rapporti con il movimento de “Il libero Spirito” , finiscono sempre più spesso bruciate sul rogo. Durante il Concilio di Vienna, 1311, il Papa decide di condannare tutte le beghine che non hanno ricevuto l’approvazione dal loro vescovo diocesano. Con il passare dei secoli, nuove accuse di eresia mosse contro le beghine portano alla soppressione di molti conventi. Tra le vittime troviamo Margherita Porete, colpevole di aver scritto “Lo specchio delle anime semplici”.
… nonostante la condanna e il rogo, il libro è sopravvissuto in numerosi esemplari e, in modo inusuale, si è salvato anche il processo inquisitoriale dove però si riscontra soprattutto la pervicace volontà della donna di non presentarsi davanti ai giudici e di non rispondere alle loro domande: un atteggiamento che condurrà anche Margherita al rogo a Parigi il primo giugno 1310.  L’ostinazione a non prestare il giuramento e a non rispondere alle domande mostra il convinto disconoscimento di un’auctoritas, il tribunale della fede e i suoi giudici (…). Margherita tace e lascia parlare il libro che diventa “testimonianza” unica e duratura di una rebellis et contumax. Il silenzio dignitoso e persistente di chi aveva deciso di trasmettere la propria concezione spirituale in forma scritta autonoma senza piegarsi alla mediazione giuridico-dogmatica dei frati-giudici incapaci – per formazione, ruolo e preconcetti – di comprendere le sue posizioni nel dovere di giudicarla e correggerla. Il suo silenzio è eccezionale quanto le sue parole, ed è uno dei pochi casi in cui una donna è autrice del proprio silenzio.
Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli XII – XV) tra ricezione e interpretazione di Kari Elisabeth Borresen e Adriana Valerio
Le beghine abitano in comunità autogestite, dove non esiste una madre superiora, ma una signora che le guida. Molte vivono da sole e il lavoro fa parte della loro esistenza. Producono candele, lavano la lana, ricamano, lavorano in fattoria, “curano” e, le più istruite, insegnano.
In generale le donne sono marginalizzate, in particolare le eretiche subiscono un doppio processo di allontanamento dal centro di gravità sociale e religioso: in quanto donne e in quanto eretiche. Nonostante ciò sarebbe assai riduttivo pensare ad un genere "dominante" e ad un genere "recessivo". La pericope paolina "le donne tacciano in assemblea" (mulieres in Ecclesia taceant , 1Cor14,34) motiva canonisticamente il silenzio delle donne, a cui si aggiunge la minorità giuridica delle donne ovvero un giudiziario silenzio sulle donne: un doppio vortice di silenzio. In generale, delle donne non si deve parlare.
Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli XII - XV) tra ricezione e interpretazione di Kari Elisabeth Borresen e Adriana Valerio
Fonti: “Donne moderne nel medioevo” di Dieudonné Dufrasne, “Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli XII – XV) tra ricezione e interpretazione” di Kari Elisabeth Borresen e Adriana Valerio, “Storia degli ordini monastici, religiosi e militari…” 


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La notte delle Beghine

Lottare contro lo squilibrio, conciliare i contrari, ristabilire l’armonia. L’unica vera missione che possiamo compiere su questa Terra.
Hanno camminato così, strette l’una all’altra, lungo le viuzze ingombre di banchi, di carri spinti a mano, di slitte. Entrambe portano lunghi mantelli di cammellotto usati spesso dalle beghine all’esterno del convento. Non è mai bene per una donna avventurarsi da sola per le strade di Parigi.
La vecchia non ha dimenticato il crudele Detto delle Beghine di Rutebeuf, che alcuni cantano ancora: Ora è Maria, ora è Maria, / ora nubile, ora sposa.
De “La notte delle beghine” di Aline Kiner ho apprezzato l’utilizzo del tempo presente. Il romanzo si svolge in Francia tra il 1311 e il 1313 e narra, attraverso le vicissitudini di alcune donne, la storia delle beghine, sotto il regno di Filippo il Bello. Non ho amato particolarmente le protagoniste, semmai la descrizione minuziosa dell’epoca, dai templari a Margherita Porete, colpevole di aver scritto “Lo specchio delle anime semplici”.
Con la condanna per eresia di Marguerite Porete, nei confronti di queste donne dallo statuto informale sono riemerse vecchie lagnanze. Se prima c’era solo il sospetto, generato dalla libertà di cui le consorelle laiche potevano godere, ora si è passati alla messa in stato di accusa.
Dopo tutto, è qui che sta il loro potere! Marguerite non ha subito il supplizio per perversione. Non dimenticarlo mai. E’ la prima donna a essere stata bruciata per un libro.
Ho apprezzato la scrittura intensa, reale, talvolta brutale, che trasmette le sensazioni, i desideri e le regole di un’epoca buia.
Il marito le aveva infilato al dito un anello d’oro incastonato con un fine rubino, la suocera le aveva affidato un sacchetto da parto* che a suo tempo, lei stessa aveva annodato alla coscia per tutta la durata della gravidanza. – Contiene una pergamena che racconta il parto di Margherita di Antiochia. Ti proteggerà da una morte brutale, come ha protetto me -. Ingoiata da un drago, Margherita di Antiochia era fuoriuscita dalle viscere della bestia perforandole la colonna vertebrale con la sua croce.
… le campane di Notre-Dame cominciano a suonare il Vespro. E’ il segnale per le filatrici di lasciare il fuso, per le ricamatrici gli aghi, il sabato e nei giorni prefestivi esse terminano il lavoro, un lavoro che d’inverno si protrae anche dopo il tramonto…
Aline Kiner coglie la complessità dell’universo femminile, portandoci per mano attraverso la crudeltà e la bellezza dell’essere umano. La Francia di Filippo il Bello arriva a perseguitare chiunque destabilizzi il regno: gli ebrei, i templari ed infine le beghine.
La ragazzina si prende cura di tutto. Sia in estate che in inverno sparge sul pavimento erbe profumate. Nei periodi in cui il clima è secco, espone al sole le lenzuola e le coperte per eliminare i parassiti. Quando invece è umido, fa asciugare al fuoco gli stoppini delle lucerne. Spalma di miele l’interno dei vasi per catturare le mosche, confeziona tortine di formaggio fritto con polvere di aconito per avvelenare i ratti e i topi che si intrufolano in dispensa. Fa riprendere gusto al vino svampito immergendovi fellandrio e grani di paradiso, smacchia le vesti con piscio mescolato a fiele di bue, mentre usa agresto per le pezze di seta al fine di non farle scolorire.
Dicembre volge al termine, la novena della vigilia di Natale anche, digiuno e preghiera. Mentre nelle campagne i contadini sgozzano il maiale e finiscono di battere il grano raccolto in covoni, le beghine si preparano al più felice evento dell’anno santo. Il dormitorio e le case sono decorati con agrifoglio e fasci di frasche, le donne ripongono i vestiti usuali per indossarne di nuovi…

Il beghinaggio ancora oggi rimane un mistero, come la maggior parte delle donne che hanno attraversato la storia.


*Miracolosi amuleti atti a facilitare la gravidanza o il parto.
***
Non sono, quel che si dice, una cultrice di romanzi storici,  se dovessi consigliarvi qualche libro, sceglierei per l’ambientazione e la veridicità del contesto (togliendo dalla lista il famoso “Il nome della rosa”):
“Angelica” di Arthur Philips – 2007 – una “storia gotica” vittoriana,
“Annus Horribilis” di Geraldine Brooks, escludendo il capitolo finale che è “fuori da ogni logica” – sulla peste nera del 1666 – 2014
“La contessa nera” di Rebecca Johns – la storia romanzata di Erzsébet Báthory (molto romanzata) – 2010
“Il segreto della monaca di Monza” di Marina Marazza – 2014 – molto bello
“Strane creature” di Tracy Chevalier – la storia romanzata di Mary Anning – 2014
“Fiore di Tuono” di Jean Taulé – storia romanzata della serial Killer bretone Hélène Jégado – 2014
“Tesi sull’esistenza dell’amore” di Torben Guldberg – 2011 – ed è forse il più bello della lista, ma probabilmente perché è il meno storico di tutti
“La guaritrice. Storia vera di Ildegarda di Bingen” di Anne Lise Marstrand-Jorgensen (non ho letto il seguito) – 2011
“Il viaggio della strega bambina” di Celia Rees – su Salem – 2001
“Lois la strega” di Elizabeth Gaskell – su Salem – 1861

giovedì 12 settembre 2019

La mappa dell'immaginazione



Ogni volta che raccontiamo una storia non facciamo altro che allargare una mappa, quella dell’immaginazione.
Ogni racconto racchiude un mistero, un incontro, un’esperienza, un sogno, una speranza. I personaggi prendono vita quando leggiamo un testo o guardiamo un film, senza di noi rimarrebbero bloccati tra le pagine di un libro o sceneggiatura. Ammiriamo la luna e la raccontiamo, perché siamo suggestionati dalle parole.

Abbiamo bisogno di comunicare all'altro i nostri sentimenti: paura, felicità, sorpresa. Da ragazza mi piacevano gli eroi appassionati e ribelli, tipici dei romanzi romantici, e i “racconti di fantasmi”.
Ero affascinata dai cigolii e dalle sagome notturne. Se tornassi indietro non esiterei a studiare “letteratura gotica inglese” all'università. La mia vita è stata davvero, citando Eric Roth quello di “Forrest Gump”, come una scatola di cioccolatini (“la vita è come una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capita”, cit.).
Molti non sanno, e non è un dramma, che il genere letterario “racconti di fantasmi” nasce nel settecento, quando era in voga “la Ragione”. In ogni caso, quello che più mi stupisce è che in Italia non abbiamo mai avuto un Poe, sebbene i primi scrittori inglesi del genere “gotico” si ispirassero proprio alle atmosfere italiane. Tra la seconda metà dell’ottocento e inizio novecento, alcuni autori italiani, come Luigi Gualdo, si sono cimentati nelle ghost story.
I generi “fantasy” o/e “gotico” risvegliano la nostra natura infantile. Prendete ad esempio “l’orrore”, è un sentimento dalle molteplici facce, che allontaniamo “nel mondo reale”, ma che molti ricercano nei fumetti, pellicole, libri. Spesso si tende a snobbare un certo tipo di letteratura, dimenticando che perfino Wilde, Maupassant, Pirandello, Zola ci hanno fatto assaporare l’inspiegabile “altrove”.
Leggiamo i libri che più ci piacciono o assomigliano. Talvolta lo facciamo per distrarci, per farci trasportare in altri luoghi e atmosfere. Alcuni libri ci insegnano qualcosa, altri ci fanno sognare, altri ancora ci donano spunti di viaggio..
Ancor prima della scrittura abbiamo creato favole, miti, leggende per spiegare l’inspiegabile, per “spaventarci”, per innamorarci. Abbiamo iniziato a scrivere la mappa dell’immaginazione e, tassello dopo tassello, oggi quella mappa è un universo di isole, stelle, costellazioni.
Se, ad esempio, prendiamo la mitologia norrena, troviamo storie di lupi e streghe. Per farvela semplice, nella foresta chiamata Foresta di Ferro, a est di Midgard, vive una strega. La vecchia strega genera dozzine di giganti e tutti hanno l’aspetto di lupi. Il Mana-garmr o Mánagarmr, il segugio della Luna, inghiottirà la luna, facendo spegnere il sole. A quel punto i venti si alzeranno ululando in ogni dove. Dai miti impariamo qualcosa in più sui nostri antenati, soprattutto accendiamo la luce dell’immaginazione. La “foresta di ferro” e “il segugio della Luna” risvegliano ricordi ancestrali, ed è lì che talvolta mi piace tornare.

West di Carys Davies


Inizio col dire che è il miglior libro che abbia letto negli ultimi dieci anni. “West”, grazie anche alla traduzione di Giovanna Granato, è semplicemente ipnotico. Da un libro mi aspetto quel certo non so che. Un racconto senza “azione” è come un film di quattro ore in lingua straniera senza sottotitoli.
“West” racconta la Frontiera americana, quella dei predatori.
Cy Bellman, mite allevatore di muli, legge sul giornale che in una palude del Kentucky sono stati rinvenuti dei resti di giganteschi animali, Incognitum animale. Lascia la Pennsylvania e si dirige verso le terre selvagge, oltre il fiume Missouri, nella speranza di vedere con i propri occhi quelle creature leggendarie. Armato di mappe, qualche arma, tabacco e ninnoli da barattare con i nativi, procede accompagnato da un indiano, chiamato Donna Vecchia Vista Da lontano. Bess, la figlia, ancora bambina, rimane a casa con la zia, in attesa. Col passare del tempo, sebbene abbia solo dodici anni, si trova ad affrontare le attenzioni lascive di alcuni uomini.
“West” attinge dai grandi romanzi americani, eppure Bellman ricorda, nella sua disperata ricerca, Don Chisciotte della Mancia. I personaggi che incontra lungo il cammino gli danno del visionario. Non sappiamo esattamente cosa spinge Cy Bellman ad abbandonare casa e figlia, quello che sappiamo è che amava la moglie defunta, che scrive un’infinità di lettere a Bess. Il commerciante di pellicce francese, Devereux, e il socio, il signor Hollinghurst, sono figli del West, vivono di affari, spesso intrapresi con gli indiani, che a detta del francese sono “ingenui come i bambini”. Il diciassettenne Shawne ha visto il proprio popolo soccombere all’avanzata dell’uomo bianco, accontentarsi di una striscia di terra,  in cambio dei vecchi territori. Il giovane indiano ha assistito alla morte della sorella da parte dell’uomo bianco.
Le storie di Bellman, Bess e Donna Vecchia Vista da Lontano si incrociano in questo racconto “popolare”. Il finale è da Fiaba Nera e lascia sentimenti come: dolore, senso di colpa, tristezza e meraviglia.
Ed è la MERAVIGLIA che mi aspetto da un libro. “West” è quasi un miracolo, è evocativo, poetico, drammatico, storico. In poche parole perfetto. Laddove finisce la storia inizia la leggenda.
Le lettere, ah. Trenta piegate, divise in quattro pacchetti legati con lo spago e affidate, in momenti diversi a: un agente olandese per la compravendita di terreni e consorte, un soldato, un frate spagnolo, il pilota di uno dei battelli che avevano dato un passaggio a Bellman.
 (…) Chissà forse il giorno in cui l’agente olandese per la compravendita dei terreni e consorte avevano attraversato il Mississippi, uno dei vogatori era ubriaco. O forse la chiglia della grande imbarcazione aveva urtato un blocco di ghiaccio, o forse la famiglia ammassata sul fondo con i figli, il carro, i due cavalli e la mucca si era spostata all’improvviso tutta da un lato sbilanciandola. Fatto sta che il traghetto (…)  straorzò e si capovolse spedendo quasi tutto in acqua, inclusa la consorte dell’olandese e la borsa con la pila di lettere piegate e legate da Bellman. Dopodiché l’acqua gelida cancellò l’inchiostro con cui erano scritti il nome di Bess e un breve paragrafo tutto sgrammaticato che spiegava dov’era casa sua in Pennsylvania, e i fogli piegati s’impregnarono d’acqua come spugne finché, diventati pesanti, s’inabissarono nel letto del Mississippi affondando dentro il morbido fango.


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Cary Davies, la scrittrice gallese di “West”, con il suo primo romanzo restituisce ai lettori il senso di timore verso l’ignoto, tema affrontato più volte dai grandi romanzieri americani.
Al ragazzo però avevano detto che i mostri non c’erano più, che si erano dileguati per sempre quando il Grande Spirito, il Grosso Dio, aveva distrutto gli smisurati animali assetati di sangue con il tuono e il lampo perché si erano nutriti della sua gente. E allora veniva spontaneo domandarsi perché il Grande Spirito non avesse distrutto i coloni bianchi venuti dall’altra parte del mare come aveva distrutto gli animali mastodontici.(…)
Di una cosa era certo, però: non c’era nessuno Spirito Eccelso. Nessun Grande Uomo nel cielo che vegliasse su di loro. Se un tempo c’era stato, ora non c’era più.
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Non sono una di quelle lettrici seriali che legge libri seriali o di genere. Detesto le catalogazioni, ma sono per la bella scrittura, quella altrui. Se un libro non mi piace, non lo finisco; se un libro mi colpisce, lo ingoio.  I libri devono saper parlare, il loro compito non finisce una volta letti. Ecco, se fossi una scrittrice, vorrei “conoscere” la lingua di Carys Davies.
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Mi piacciono le storie degli esseri umani, del mondo. A ben guardare sono attratta dagli anti eroi come Christopher McCandles e Donald Crowhurst (detto più volte). Tra le mie letture preferite spiccano “Cent’anni di solitudine”, “Orlando” e “Afrodita”; mi commuovo dinanzi ad un petroglifo indiano (americano), all’arte rupestre o a un Dolmen belga, francese o irlandese. L’altro giorno mentre guardavo un documentario sulla Cambogia, ho pensato alla determinazione dei salmoni che risalgono il fiume, ai villaggi lacustri che in estate riemergono dalle acque, alle donne che vivono nelle risaie tra fango e serpi.
Ecco, la vita non può essere catalogata. Sono onnivora, ingoio e risputo e ingoio. Grande Spirito o Kodama, Dea o Dio… qual’è il senso del viaggio? Il cerchio non si chiude. Il tempo non è finito.
Foto di SimonaEmme

Tempora d'Autunno


“Tempora d’Autunno”
A Cormòns, le verdi colline del Collio custodiscono un segreto dimenticato dalla storia: la sopravvivenza della Compagnia dei Benandanti e della Congrega delle streghe Dominule. Saranno i due giovani Benandanti Gabriel ed Emanuel Furlan e Diana Samer, la figlia della Somma Strega, a togliere i veli che ammantano le due comunità. La storia del loro incontro e della loro irresistibile attrazione è popolata da diversi personaggi che, in un intreccio di amori e verità nascoste, sveleranno rituali e usi degli uomini e delle donne che hanno convissuto con la magia e la medianità fin dalla notte dei tempi e che troveranno l’apice in Leonora Del Zotto, guaritrice e ultima erede di una stirpe di streghe, che ha abbandonato un’esistenza di privilegi per seguire il sentiero della Grande Madre, la prima Dea.
Di  Nataša Cvijanović conoscevo soprattutto i suoi post e le sue lettere (bellissime), sempre piene di entusiasmo e voglia di vivere. Ora conosco anche la sua scrittura, fatta di sfumature, approfondimento e bellezza.
“Tempora d’Autunno” è un piccolo gioiello. I personaggi sono messi a fuoco, ben amalgamati nel contesto che li circonda. La loro evoluzione è scandita dai capitoli, che con l’avvicinarsi della “Tempora”, diventano sempre più coinvolgenti. La narrazione è perfetta, elevata da un intreccio che, se paragonato agli scrittori del passato, fa di  Nataša Cvijanović la nuova Elizabeth Gaskell. In partenza, e mi scuserà la scrittrice, pensavo di trovarmi dinanzi al solito romanzo fantasy, con quei cliché ripetuti allo sfinimento, Nataša Cvijanović, invece, mi ha piacevolmente sorpresa. La sua scrittura non è mai banale.
Il libro, e lo dico da ex folclorista e cultrice de “i sei gradi di separazione”, è una vera e propria caccia al tesoro.
“… Secondo la tradizione contadina friulana gli eventi atmosferici violenti, come il temporale e la grandine, erano considerati robe di man mandade, ovvero provocati da mano cattiva, da entità negative, quasi sempre causati da streghe. Il cerchio di lame era una misura di contro-offesa e protezione che aveva il fine pratico di far scaricare su di esse eventuali lampi, anziché sulla casa, e quello magico di bandire le negatività…”
 “… nel duomo di Sant’Adalberto, costruito nel XVIII secolo e noto ai cultori di misteri per la presenza di mummie nelle sue fondamenta. Purtroppo quelle sepolture erano state irreparabilmente danneggiate da un saccheggio avvenuto durante la Prima guerra mondiale. Da allora i sotterranei erano rimasti chiusi…”
 “… intingerò queste calze nella grappa e le infilerò ai tuoi piedi insieme ad altre, in modo che l’acol faccia scendere la temperatura del tuo corpo. E’ un metodo antiquato usato dai contadini da secoli, ma funziona”.
“… Era benedante chi nasceva con la camicia, chi conservava un pezzo del proprio amnio attorno al collo per tutta la vita…”
“… secondo la leggenda queste sigarette vennero create nel XIX secolo dal giavanese Haji Jamahri per curare i suoi attacchi di ansia…”
“Fu la badessa tedesca Ildegarda di Bingen a riscoprire le proprietà rigenerative del farro” spiegò la signora, “così io ne prendo sempre qualche tazza la sera. I biscotti, invece, sono fatti di grano saraceno e zucchero di canna. Sono un toccasana per chi, come me, è minacciato dal diabete, perché questo tipo di grano abbassa la glicemia…”
“… era il febbraio 1647. Otto donne vennero arrestate tra la città e la periferia, accusate di aver partecipato a un sabba. Vennero trascinate nel castello di Vipulzano, vicino a Cormons. Fu il conte Mattia Della Torre a occuparsi della vicenda che, caso raro durante tutta la storia della Santa Inquisizione, eseguì tutto l’iter procedurale con l’ausilio di giudici laici. Fu un processo corto, durante il quale si decise che solo due delle accusate erano fattucchiere: Lucia e Antonia. Le altre imputate furono scarcerate, mentre le presunte streghe vennero giustiziate il primo aprile delle stesso anno. Decapitazione e rogo…”
Il vero cuore di Nataša Cvijanović è racchiuso nel capitolo 49, dove si nota l’amore che ha la scrittrice verso la letteratura e la cultura, sinonimi di bellezza e condivisione.
“… solo in quella stanza, infatti, sua madre non aveva l’ultima parola e la ragazza ne aveva approfittato per realizzar quella che, agli di chi la conosceva, era una follia. Aveva coperto ogni singola parete con scaffali di legno e non era rimasto neanche un piccolo spazio libero, tanti erano i volumi che negli anni era riuscita a raccogliere: tutti i manuali universitari e suoi appunti, tanto per cominciare. Diana era terrorizzata all’idea di dimenticarsi anche una singola materia studiata uno o due anni prima e spesso tornava al libro di riferimento per rinfrescarsi la memoria. In pochi riuscivano a capirla, ma per lei la spiegazione era semplice: adorava la letteratura, sognava di diventare professoressa e insegnare ad altri ragazzi quanta ricchezza fosse presente nei romanzi e, per farlo bene, era certa che fosse fondamentale imprimersi nella memoria quante più informazioni possibili…”
“Tempora d’Autunno” è un giallo “storico” dalle sfumature fantastiche: da leggere!
Un piccolo appunto, da “inventrice di racconti”:  i personaggi di Nataša Cvijanović hanno personalità e spessore. Sono risoluti come la scrittrice che li ha creati.

Altri libri di Nataša Cvijanović : “La dama e l’aquila”, “Il ricettario d Baba Ljuba” e “Tempora d’Autunno”.
Foto di Nataša Cvijanović

Pelle di foca di Melania D’Alessandro



Irlanda, dove il confine tra mito e realtà non è così netto.
Là dove l’acqua può diventare la più acerrima dei nemici e al contempo amica fidata, c’è chi racconta storie di selkie e di mondi nascosti.
Brennalyn ama ascoltarle, poiché sa che il suo destino è quello di tornare all’oceano che l’ha generata: ha le mani palmate, gli occhi e i capelli scuri come le donne-foca delle leggende. Tuttavia il paese diffida di lei, raccolta da Fergus la notte di Ognissanti quando era ancora in fasce. Divisa tra terra e acqua, Brennalyn desidera la libertà che solo il mare può darle.
Attraverso il pregiudizio, la superstizione e la solitudine, imparerà a conoscersi, accettando la pelle di foca che l’accompagna dalla nascita.



"Brennalyn non vedeva la candida lana: sotto il suo sguardo scorrevano i racconti che lei stessa inventava di ora in ora. I fili e i nodi diventavano allora rivoli d’acqua chiara, dai quali attingeva per stimolare la fantasia. Le sembrava di usare le onde del mare per intessere la sua storia, imprimendola sulla stoffa creata dai movimenti delle mani…”
Brennalyn raggiunge la libertà, e la propria consapevolezza, dopo una lunga serie di eventi.  La scrittrice Melania D’Alessandro narra, attraverso sentimenti ed emozioni, l’integrazione sociale della protagonista, ed è per questo motivo che “Pelle di foca” è un romanzo di formazione.
Potrebbe, per come è stato scritto, diventare un classico della letteratura. Ricorda, ma non per la storia, romanzi come “Anne of Green Gables” (Anna dai capelli rossi) di Lucy Maud Montgomery o The Secret Garden (Il giardino segreto) di Frances Hodgson Burnett.
E’ un libro per tutti, che farei leggere a scuola. E’ educativo, elegante, commovente e soprattutto ben scritto.
Spesso i romanzi di formazione non si esimono dal manifestare un certo conformismo, la scrittrice, invece, come nei classici della letteratura, racconta una storia dove non c’è un vero buono o un vero cattivo.
La peculiarità di Melania è quella di aver scritto un libro imbevuto di disegni (fatti dalla stessa autrice), leggende, fiabe, canzoni, superstizioni e tradizioni irlandesi. Per chi, come me, ama l’Irlanda il romanzo apre tante piccole porticine.

“… A Samhain si onoravano i defunti e, come da tradizione, ogni anno i McNamara aggiungevano un posto in più a tavola, quello che sarebbe spettato a Maire, e preparavano insieme il Colcannon, il suo piatto preferito…”

“Pelle di foca” è speciale perché è originale la persona che l’ha scritto, pur conoscendola appena, si riesce a intravedere la sua umanità.
Il finale è bellissimo.


Non essendo una “critica letteraria” mi spingo un po’ in là, se mi consentite. Non sono di bocca buona, per quante cose legga non mi piace quasi nulla, e non dovrei, lo so, dirlo visto che ho scritto un libro. Cionondimeno, trovo che la scrittura di Melania D’Alessandro si avvicini a quella di Lois Lowry.

Della stessa autrice:

Sogni di Carta
L’arte di scrivere. Regole, tecniche e consigli di scrittura creativa
La città nascosta. Alla scoperta del mondo parallelo

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Le foto, il video, il riassunto appartengono a Melania D’Alessandro
La critica è mia – SimonaEmme

Il ricettario di Baba Ljuba di Nataša Cvijanović


Mi piacciono i libri che trattano di “cucina”: ricettari, romanzi, racconti, biografie.
Ho in comune con la tradizione balcanica il preparare le pietanze a occhio.
“… nella migliore tradizione balcanica, tutto viene preparato a occhio, o con pochi quantitativi certi. Può sembrare un modo di cucinare impreciso e spaventare le cuoche alle prime armi. In realtà è il metodo più antico e naturale per stare attorno ai fornelli.”Da “Il ricettario di Baba Ljuba” di Nataša Cvijanović
Del libro di Nataša amo l’atmosfera familiare, la spontaneità, il cuore e soprattutto la tradizione. E’ una lettura veloce, ma non per questo superficiale. All’interno si avverte il profumo del quotidiano fatto di passione e dedizione. 
“Liubica Gostić naque a Vranjak, un piccolo villaggio della Bosnia-Erzegovina, nel 1950. Cifra tonda. In un paese che di tondo non aveva proprio niente. Prima di tutto, Vranjak si trovava in mezzo alle colline e per arrivarci bisognava affrontare parecchi tornanti e grosse buche per terra. E poi, nonostante la maggioranza dei paesani fosse serbo-ortodossa, ai tempi della Jugoslavia ci potevi trovare musulmani e cattolici, e così ognuno aveva la sua chiesa e la sua moschea, e per raggiungerle dovevi zizagare fra una collina e l’altra, tra un gruppo di fedeli e uno di titini laici irriducibili.”
“… E’ mia volontà scrivere queste pagine per non recidere il filo di sangue che mi tiene legata a una terra che, di sangue, ne ha visto versare fin troppo, forse anche perché i Balcani sono fedeli all’origine del loro nome turco: bal, che significa miele e kan, sangue. Una tragica coerenza…”“Noi soffriamo di una malattia che non ha una cura. Un malanno dolce come il miele del vecchio Aco, che viveva con le sue api a due passi dal fiume Bosna e struggente come le canzoni del compianto Luis, che con la sua voce profonda e il tamburo, rallegrava le notti del suo quartiere belgradese. Si chiama jugo-nostalgija. E  sarà nostra compagna fino a quando i nostri occhi non si chiuderanno e i nostri spiriti si ricongiungeranno agli antenati.”
Da “Il ricettario di Baba Ljuba” di Nataša Cvijanović
Ogni ricetta porta con sé il respiro delle relazioni umane: riconoscenza, affetto e storia. Potrete trovare la “Pita sa Jabukama”  che vi farà fremere le narici con il suo profumo di mele e cannella, o la Sataraš  (peperonata) che racchiude l’essenza dell’estate.
Ogni cosa è illuminata e a me piace ricordarlo!
Al momento il libro è fuori catalogo,  per maggiori informazioni/chiarimenti/curiosità l’autrice la trovate qui: