giovedì 15 aprile 2021

Il sogno di Nova


Il sogno di Nova” è un superbo racconto di genere. Massimo Valentini utilizza il tipico linguaggio fantascientifico per descrivere un mondo abitato da macchine e esseri umani robotizzati. I protagonisti, Nova e Maximilian, si muovono sotto una pioggia perenne tra ologrammi, capsule oniriche, piante marziane e braccia meccaniche. Siamo nel 2446, gli esseri umani convivono con le macchine e sono essi stessi in parte degli “automi”.

Lo scrittore si chiede cosa sia un essere umano. Indaga sui sentimenti e le emozioni del singolo rispetto alla realtà che lo circonda. Maximilian è “un intero”, non ha organi artificiali, braccia o mani robotiche, né si è fatto installare un sistema per il controllo delle emozioni. Nova è una creatura diversa sia dagli esseri umani che dalle macchine. Entrambi, per motivi differenti, fuggono da una società ostile.

“Il sogno di Nova” potrebbe essere, per l’atmosfera, una costola di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (conosciuto anche come “Il cacciatore di androidi”) di Philip K. Dick (da cui è stato tratto il film “Blade Runner”), ma anche un episodio di “Electric Dreams”. Sebbene non mi piaccia cadere nella trappola dei paragoni, è difficile non vedere nella scrittura di Valentini l’universo creato da Dick. Pur non essendo un’esperta di fantascienza, ho ingoiato “Il sogno di Nova” nel giro di poche ore. Valentini è uno straordinario narratore, riesce a condurti all’interno della scena, che sia di azione o romantica poco importa, ti ritrovi scaraventato nel suo mondo. E’ uno scrittore puro.

Un vento sottile correva per la strada deserta il cui asfalto, lucido di pioggia, riluceva sotto i raggi lunari. I caleidoscopici cespugli di xenorose oscillavano con movenze spettrali nel giardino ben curato, rischiarando le sagome degli alberi imponenti che svettavano ai lati del muro di recinzione.

La fantascienza, a differenza di altri generi, ha la capacità di farci ragionare. Negli anni cinquanta del novecento ci si domandava se era etico migliorare le parti del corpo. Inizialmente la chirurgia estetica serviva a ricostruire zone danneggiate, compromesse (rinoplastica, mastoplastica ecc) per incidenti o malattie. Oggi si ricorre soprattutto per abbellire e modificare quello che non piace, anche con iniezioni di botulino e collagene. “Il sogno di Nova” racconta la vanità dell’essere umano, della sua inadeguatezza e fragilità. Cosa ci rende umani? Cosa lasciamo al nostro passaggio?

Questo libro merita di essere letto.

Mentre scivolava nell’incoscienza gli piacque pensare a quella figura come all’ultima donna sulla Terra senza acciaio né plastica, con un cuore vero. Un’illusione, era solo questo. Eppure, anche se per pochi istanti, si lasciò curare dall’idea che fosse reale e si assopì dolcemente.

In alcuni punti mi ha ricordato il buon vecchio Bradbury (non sono di parte 😉 ).


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Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.

Fahrenheit 451 di Ray Douglas Bradbury

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Links:

https://www.facebook.com/Massimo-Valentini-Scrittore-e-Reporter-freelance-487697327964088

https://www.saggeseeditori.it/fantascienza/il-sogno-di-nova/?fbclid=IwAR28555O1–zUeYmmFZ9BIl28-QIeJJzY85W9DJ0ItRh-Hv7zbUeaKhTPWY


IL SOGNO DI NOVA:

Casa Editrice: Saggese Editore

Progetto grafico ed impaginazione: Luca D’Argenio (copertina stupenda. Non è il mio genere, ma è stupenda).

mercoledì 7 aprile 2021

Verso un'altra estate di Janet Frame

Grace Cleave abita a Londra. I capelli stanno prendendo il colore della polvere. Il suo romanzo è fermo da tempo, qualcosa si è intromesso nella sua vita. Philip Thirkettle la invita a trascorrere un fine settimana a Relham, senza sapere che alla donna non piace stare in mezzo alla gente. Così si ritrova a dividere lo stesso spazio con un marito, una moglie e due figli. Col passare del tempo Grace si trasforma in un uccello migratore…

Frame fu internata per otto anni in un istituto psichiatrico, dopo una diagnosi per schizofrenia. Grazie ai suoi racconti scampò alla lobotomia. “Verso un’altra estate” è il romanzo che Janet Frame vietò di rendere pubblico perché troppo intimo.

“Un fine settimana a Relham, con Philip Thirkettle, sua moglie Anne, il padre di lei, Reuben, e forse – Grace non lo sapeva – uno o due figli: sembrava la promessa di un incubo”.

Janet Frame mette la propria vita a disposizione del romanzo. La sua è una scrittura personale, poetica, sensibile, colma di riflessioni. Intravediamo, attraverso gli occhi di Grace, lo stato d’animo della scrittrice.

In Nuova Zelanda ero una matta conclamata. Tornare indietro? Mi hanno consigliato di vendere cappelli per la mia salvezza”.

In “Verso un’altra estate” la protagonista è incapace di immergersi nella società, eppure ne coglie il linguaggio, i gesti. E’ attenta alle piccole cose, alle azioni quotidiane a cui non diamo importanza. Grace si sente fuori luogo, osserva e soppesa le parole. Teme di essere scoperta, di deludere. In perenne stato di allerta, crede di non sapere comunicare con le altre persone.

Quando avvertì che gli attimi, dopo aver formato un perimetro senza via di fuga, si stavano gradualmente schiudendo nei tipici incisi del sabato mattina. Grace scivolò fuori da una fessura tra due attimi, mormorò qualche scusa e fuggì nella sua stanza”.

La scrittura di Janet Frame è un oceano di parole e pensieri. Un momento ti trovi nella fredda Inghilterra, un attimo dopo in Nuova Zelanda. L’autrice è in grado di afferrare i diversi stati d’animo delle persone, di entrare dentro le cose.

Rieccola in Nuova Zelanda. Ricordava le kumara, dolci e levigate come l’oro, e il cesto di lino che il vecchio Jimmy aveva dato al loro padre…”.

I suoi flussi di coscienza, così liberatori e profondi, ricordano quelli di Virginia Woolf. La sua lirica rimanda ad Alda Merini e Sylvia Plath.

Una cattedrale, una casetta, una stazione ferroviaria, un hangar? E’ troppo alto per vederne la struttura, il cielo di velluto si smorza nella nebbia, il quotidiano con il suo inserto, l’inserto nell’inserto (ah il technicolor!) riposa pesante sul piede e sul cuore”.

Ma, forse, sarebbe più corretto dire che Janet Frame è solo, si fa per dire, Janet Frame.

Il ruolo di poeta, naturalmente, apparteneva alla madre di Grace la quale, forse per la povertà della famiglia, forse per la propria convinzione di come funzionava la mente di un poeta, insisteva nel dire che le poesie migliori venivano sempre scritte sul retro di una busta da corrispondenza, o su pezzetti di carta strappati da una lettera”.

La mucca ebbe un vitellino e quando aveva poche settimane venne a vederlo un uomo, che disse: Non è ancora abbastanza grande. Io dissi: Per cosa? Mio padre disse: Non ficcare il naso in cose che non ti riguardano, ma l’uomo, senza riflettere, rispose: Il mattatoio. C’erano i matti al mattatoio?”.