lunedì 3 maggio 2021

Teresa degli oracoli di Arianna Cecconi

 Teresa, ormai anziana, ha una memoria che si scioglie per strada. Forse, è per questo che decide di sdraiarsi sul letto e di restarci in silenzio. In punto di morte, le figlie, la cugina, la nipote e la badante si stringono a lei.

Questa è una storia di donne. Ognuna conserva nel proprio intimo un segreto, un senso di colpa, qualcosa che le fa vivere a metà.

“Teresa degli oracoli” ha un che di miracoloso. E’ un affresco nel quale ci si perde volentieri, attraverso costumi, ricordi, dolori e nostalgie. Arianna Cecconi riesce a narrare con grande autenticità le fragilità e i punti di forza dei personaggi, senza mai cadere nello scontato. La sua non è una prosa semplice e asciutta, ma colorata, corposa, intima, a tratti fiabesca. In una parola: viva. Ogni protagonista ha una sua peculiarità. Troviamo, ad esempio, Irene, nata con dodici dita ai piedi, che ascolta i sogni e li raccoglie; Flora, che si muove con naturalezza nei campi e che ha perso il cuore per Andrea o Teresa che ha amato quattro volte di meno.

Pilar diceva che Irene aveva la malattia del vento. Non poteva stare nello stesso luogo per troppo tempo e così doveva seguire il vento che si portava addosso. Zia Flora invece generava vento, ma era impiantata nella terra – troppo robuste e pesanti le sue radici, avevano fatto un nodo intorno alla casa.

Nello stringersi a Teresa, le donne si abbandonano ai ricordi, ricostruiscono il passato, superando segreti e sensi di colpa. “Teresa degli oracoli” non è un semplice romanzo, ogni capitolo è intriso di quegli episodi e piccole cose che compongono un’intera esistenza. Ogni pagina ha dentro di sé la magia del racconto.

… Dopo qualche giorno, accanto alla conchiglia dell’Amazzonia, Rusì appese con un filo di cotone una statuina di Padre Pio. La conchiglia e Padre Pio penzolavano insieme e ogni tanto il gatto faceva agguati all’una e all’altro, lasciando graffi sul collo del frate. Qualche settimana dopo si aggiunse una boccettina di un liquido verdastro, il giorno successivo la boccetta era sorvegliata dallo sguardo di Santa Lucia e via così finché negli anni il letto di nonna si tramutò in un albero di Natale fuori stagione, un santuario con tutte le divinità. Pezzettini di corteccia, semi rossi e neri, l’immagine di San Martino, un calzino di bimbo, la foto delle stigmate, ampolle di acqua di luoghi santi, Gesù crocefisso ai piedi del letto che sfiorava un piccolo lama di stoffa. Un mattino era apparso anche un ovetto bianco: un baco da seta, come quelli che si allevavano alla Benvenuta quando la nonna era giovane. Nessuna ammise mai di averlo portato.

Arianna Cecconi riesce, dove altre autrici hanno fallito, a trasportarci in un regno femminile colmo d’amore e attenzioni, nonostante i segreti, le omissioni e le bugie.

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La mia critica appassionata

Questo è uno di quei romanzi, con “L’estate incantata” di Bradbury, che ho centellinato perché volevo non finisse mai. Mi piacerebbe, e lo dico con il cuore, che qualcuno dicesse a Arianna Cecconi quanto mi è piaciuto il suo romanzo, quante lacrime ho versato (ho pianto anche perché non scriverò mai così).

“Che cos’è il senso di colpa?” Pilar le aveva chiesto un giorno perché diceva che sulle sue montagne peruviane quella cosa non esisteva. “E’ quando ti lasci scavare dagli sguardi e dalle parole cattive, e ti convinci che sono vere. Quando accusi la tua bocca di stare zitta e di non ribellarsi alla calunnia. Quando sai che la tua tristezza è contagiosa, ferisce chi ami, ma non puoi farne a meno.”

Ho sofferto e tifato per tutte le donne del racconto, soprattutto per Flora, Pilar e Teresa. Mi sono immersa completamente nella narrazione. Ho sentito l’odore della casa del fico; ho atteso il segreto delle “ricette” andine; ho apprezzato l’animismo di cui si nutre il romanzo. Sono sempre stata attratta dalla teoria “del guscio e della seta” (mia nonna materna lavorava nei bachi da seta), e trovare certe analogie mi ha fatto sentire “compresa”. Ho amato gli oracoli di Teresa: quello scritto sulla pelle, quello portato dal vento, quello fatto di nebbia e quello che diviene fulmine. Mi sono rivista nelle donne di questa grande famiglia, forse perché anch’io do un nome ai luoghi, alle stanze, alle cose o mi circondo di ninnoli, piume, ali, sassi, conchiglie, ossa, fossili e ricordi. O forse perché, come le protagoniste, sono fatta di bozzoli, vento, terra e sabbia. O, ancora, perché in un’altra vita avrei voluto fare l’antropologa come l’autrice.

Regalai non so a quante persone “L’estate incantata” di Ray Douglas Bradbury, la maggior parte non vedevano/vedono quello che vedo io. Pensavo che avrei cambiato idea, come, è accaduto con “Kitchen” di Yoshimoto o “Seta” di Baricco (per chi non lo sapesse a me piace Baricco), invece “L’estate incantata”, nonostante siano passati più di trenta anni, è rimasto il mio libro preferito. Ancora oggi cito alcuni episodi come “la macchina della felicità” o “il drago che ha inghiottito il cigno”, e ancora oggi per descrivere qualcosa utilizzo: “aveva quel certo tocco”.

Era una mattina tranquilla e la città era ancora avvolta nel buio, infilata a letto. Il tempo diceva che era estate: il vento aveva quel certo tocco e il respiro del mondo era lungo, caldo e lento.

Forse si è semplicemente portati… “Teresa degli oracoli” mi somiglia, come mi somigliava “L’estate incantata” di Bradbury quando avevo l’età di Douglas Spoulding. Forse amiamo certe letture, perché, in fondo in fondo, parlano di noi.

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Su “A piedi nudi – Facebook” – giorni fa – la mia quasi critica di pancia

Teresa dormiva come i delfini che hanno il cervello diviso a metà. Metà dormono e metà nuotano, metà stanno in fondo al mare e metà si spingono verso la superficie. Anche la nonna metà sognava e metà ci ascoltava, metà dormiva e metà vegliava su di noi. Fuori aveva gli occhi chiusi, e dentro erano aperti.

Non so, mi meraviglio sempre che certe scrittrici, come Carys Davies (il suo “West”mi rapì) e Arianna Cecconi non siano famose quanto Isabel Allende. Non capisco il successo di alcuni libri come “Va dove ti porta il cuore”, “Twilight” o “L’uomo che sussurrava ai cavalli”. Per me, e sottolineo per me, sono più scandalosi delle “sfumature”. Vabbè, i gusti sono gusti e quelle cose là. Non capisco le critiche scialbe, dove una tizia scrive che Arianna Cecconi ha una scrittura semplice. Semplice? “Il vento accarezza i rami degli alberi” è una frase semplice o “la mamma compra il latte” è un periodo semplice. Soggetto predicato e complemento. La mia, cazzo, è una scrittura semplice (sempliciotta, va), non quella di Arianna, che ha pure un bel nome che inizia per A e finisce per A (cose mie). E io mi incazzo come un’Ape 🐝, per questo, da che mondo è mondo, di rado parlo di cinema (ci metto troppa passione) e di letteratura. Che poi, a parte qualche eccezione, certi critici, dio santo, quando leggono che leggono? Ok, faccio un bel respiro. Dove ero rimasta? Sto leggendo questo piccolo, grande gioiello, che è qualcosa di miracoloso. Non è “eccessivo” come “La donna degli alberi”. Arianna Cecconi non ha una scrittura iperbolica come quella di Marone (che per carità ho amato, ma talvolta è fine a se stessa, e lo dice una logorroica) ma manco è “semplice”, perché semplice in questo caso suona come un’offesa. È poesia, come quella di Marquez, Allende o Erri De Luca. Respiro. Leggenda. Amore. Poesia. Che meraviglia.

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Grazie Arianna, di cuore. Grazie davvero.


Per i commenti: https://apiedinudi.blog/2021/05/03/teresa-degli-oracoli-di-arianna-cecconi/