lunedì 28 giugno 2021

Letture


"L'apicoltore" di Maxence Fermine

Aurélien Rochefer vive in Provenza, alla fine dell'Ottocento, e vuole fare l'apicoltore.Tra sogni e aspirazioni, finisce in Africa, dove incontrerà mercanti, uomini potenti e la Regina delle Api.

“L’apicoltore” è una fiaba di una bellezza struggente. Un racconto breve capace di contenere più storie: quella del deserto, dell’acqua, della follia, dell’avidità, della sensualità, della speranza, dell’amore e del miele. Maxence Fermine ha il dono della sintesi, riesce in poche pagine a trasmettere l’essenza dell’oro, dare forma ai desideri. Aurélien rincorre i propri sogni, anche a costo di perdere tutto.

Un mattino di gennaio, Aurélien trovò nella neve un’ape morta. Era vestita d’oro e di nero, autentica gemma di fuoco in un oceano di candore. La prese delicatamente col pollice e l’indice di una mano e la posò sul palmo dell’altra. A contatto con la sua pelle, l’ape congelata si infranse come vetro. Quando Aurélien aprì la mano e la voltò verso il suolo, vide con tristezza un pizzico di polvere d’oro brillare nell’aria e svanire sulla neve.

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 “Novella degli scacchi” di Stefan Zweig

Una partita a scacchi in mezzo all’oceano e due giocatori dal passato differente. Il primo è Czentovic, uno scacchista di fama mondiale; il secondo è il dottor B., che conosce gli scacchi per disperazione. Zweig ci racconta, attraverso un lungo flashback, l’isolamento del dottor B. da parte della Gestapo e le sue innumerevoli partite solitarie che lo conducono presto al delirio.
Czentovic è un ex contadino russo, con un unico talento: gli scacchi.

“Novella degli scacchi” è un piccolo capolavoro in cui lo scrittore descrive la battaglia tra due personalità diverse: una ingenua, ignorante e ruvida, l’altra sensibile, borghese e con una fervida immaginazione. Per entrambi gli scacchi sono una salvezza.
Nella sua brevità Zweig riesce a cogliere le sfumature dell’animo umano, attraverso un ritmo serrato, una scrittura sensibile e appassionante.

“Io – gioco – a scacchi nel senso più letterale del termine, mentre gli altri, i veri giocatori di scacchi, fanno sul serio.”

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 “Finché il caffè è caldo” di Toshikazu Kawaguchi

Ed. Garzanti

Le 5 regole da seguire

– sei in una caffetteria speciale. C’è un unico tavolino e aspetta solo te.
– siediti e attendi che il caffè venga servito.
– tieniti pronto a rivivere un momento importante della tua vita.
– mentre lo fai ricordati di gustare il caffè a piccoli sorsi.
– non dimenticare la regola fondamentale: non lasciare per alcuna ragione che il caffè si raffreddi.

Le rigide regole scoraggiano la maggior parte di quelli che conoscono le potenzialità del locale. La storia, infatti, è costruita su una manciata di personaggi. L’amore e l’empatia sono i veri protagonisti del libro.
Il romanzo ci insegna che il tempo va gustato a piccoli sorsi. Ogni momento, ogni istante della nostra vita è importante. I personaggi tornano indietro nel passato non per cambiare il presente, ma per affrontare meglio il futuro. E se non può mutare la realtà, cambia la testa dei protagonisti. Gli esseri umani possono superare qualsiasi difficoltà, riconciliandosi con il proprio destino.
Il meccanismo del viaggio nel tempo è confinato in un piccolo caffè, nonostante la trama un po’ folle, la narrazione è commovente.

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“Sortilegi” di Bianca Pitzorno

Sono rimasta colpita dalla scrittura di Bianca Pitzorno. Nel racconto “La strega” utilizza un linguaggio quasi seicentesco. Descrive gli abiti, il cibo, le erbe, gli usi e i costumi del 1600. La cura dei dettagli è impeccabile. Ne “La strega”, attraverso la vita di Cate e Lorenzo, conosciamo la crudeltà, la fame, la malattia (la peste del 1600), la paura e l’ignoranza. Bianca Pitzorno ci regala così un affresco di un’epoca buia. “La strega” non è una semplice novella, non ci spinge ad amare i protagonisti, a tifare per loro. Non ci immedesimiamo, come accade in “Lois la strega” di Gaskell, ma osserviamo, impotenti, l’orrore. L’autrice, in questo modo, dà voce a tutte quelle donne condannate per stregoneria. Bianca Pitzorno è una scrittrice curiosa, attenta ai dettagli, lo si evince dalle sue letture, tra cui i saggi e i documenti originali sulle streghe, ad esempio il terribile Malleus Maleficarum. Ha letto verbali, come i processi a Giovanna d’Arco o a Gostanza, la strega di San Miniato. Ha attinto dalle “Lettere al padre” di Virginia Galilei, figlia di Galileo per le descrizioni. Insomma, dietro al suo racconto c’è un mondo di riflessioni, testi, conoscenza e passione. La differenza tra una romanziera e una scrittrice di romanzi storici sta nelle sfumature, nelle piccole cose. Mi è capitato di leggere libri in cui la bella di turno, protagonista seicentesca, si cambia d’abito e si lava più volte al giorno, quando in molte zone d’Italia l’acqua corrente arrivò nelle contrade negli anni 40 del novecento o molte case di ringhiera, fino a 40 – 50 anni fa, avevano i servizi igienici in comune.
La seconda novella, “La maledizione”, prende spunto da un ricamo del XIX secolo che si trova nella città di Sassari. Il racconto, contrariamente al precedente, è quasi fiabesco. Questa volta a trionfare è l’amore.
Nell’ultimo racconto , “Profumo”, c’è tutta la cura, la magia e la nostalgia delle “nostre radici” . Sono riuscita a sentire l’odore dei biscotti di vento.

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“La scatola dei bottoni di Gwendy” di Stephen King e Richard Chizmar

È una lettura “leggera” che, come spesso accade nei racconti o romanzi brevi, vorresti non finisse mai. Non comprendo alcuni critici, che si lamentano della lunghezza dell’opera. Per certe persone “Seta” di Baricco, “Ali” di Mishima, “Neve” di Fermine, o “Kitchen” di Banana Yoshimoto sono romanzi inconsistenti, in quanto diversamente lunghi (mi domando, allora, perché li leggano). Non sarà il migliore King, tuttavia la trama si dipana in un crescendo di tensioni e attese. Lo scrittore ancora una volta dimostra una fantasia sfrenata, attraverso un linguaggio scorrevole e convincente. Anche se la novella è scritta a 4 mani da Richard Chizmar e King, lo stile di quest’ultimo si riconosce già dall’ ambientazione: Castle Rock. Gli ingredienti dell’autore ci sono tutti: l’infanzia, l’adolescenza, il bullismo, l’amicizia, l’orrore, il terrore verso l’ignoto. Come Johnny de “La zona morta” Gwendy si ritrova a portare il fardello della responsabilità, che è, in fondo, la vera protagonista del romanzo.

Da leggere!

lunedì 3 maggio 2021

Teresa degli oracoli di Arianna Cecconi

 Teresa, ormai anziana, ha una memoria che si scioglie per strada. Forse, è per questo che decide di sdraiarsi sul letto e di restarci in silenzio. In punto di morte, le figlie, la cugina, la nipote e la badante si stringono a lei.

Questa è una storia di donne. Ognuna conserva nel proprio intimo un segreto, un senso di colpa, qualcosa che le fa vivere a metà.

“Teresa degli oracoli” ha un che di miracoloso. E’ un affresco nel quale ci si perde volentieri, attraverso costumi, ricordi, dolori e nostalgie. Arianna Cecconi riesce a narrare con grande autenticità le fragilità e i punti di forza dei personaggi, senza mai cadere nello scontato. La sua non è una prosa semplice e asciutta, ma colorata, corposa, intima, a tratti fiabesca. In una parola: viva. Ogni protagonista ha una sua peculiarità. Troviamo, ad esempio, Irene, nata con dodici dita ai piedi, che ascolta i sogni e li raccoglie; Flora, che si muove con naturalezza nei campi e che ha perso il cuore per Andrea o Teresa che ha amato quattro volte di meno.

Pilar diceva che Irene aveva la malattia del vento. Non poteva stare nello stesso luogo per troppo tempo e così doveva seguire il vento che si portava addosso. Zia Flora invece generava vento, ma era impiantata nella terra – troppo robuste e pesanti le sue radici, avevano fatto un nodo intorno alla casa.

Nello stringersi a Teresa, le donne si abbandonano ai ricordi, ricostruiscono il passato, superando segreti e sensi di colpa. “Teresa degli oracoli” non è un semplice romanzo, ogni capitolo è intriso di quegli episodi e piccole cose che compongono un’intera esistenza. Ogni pagina ha dentro di sé la magia del racconto.

… Dopo qualche giorno, accanto alla conchiglia dell’Amazzonia, Rusì appese con un filo di cotone una statuina di Padre Pio. La conchiglia e Padre Pio penzolavano insieme e ogni tanto il gatto faceva agguati all’una e all’altro, lasciando graffi sul collo del frate. Qualche settimana dopo si aggiunse una boccettina di un liquido verdastro, il giorno successivo la boccetta era sorvegliata dallo sguardo di Santa Lucia e via così finché negli anni il letto di nonna si tramutò in un albero di Natale fuori stagione, un santuario con tutte le divinità. Pezzettini di corteccia, semi rossi e neri, l’immagine di San Martino, un calzino di bimbo, la foto delle stigmate, ampolle di acqua di luoghi santi, Gesù crocefisso ai piedi del letto che sfiorava un piccolo lama di stoffa. Un mattino era apparso anche un ovetto bianco: un baco da seta, come quelli che si allevavano alla Benvenuta quando la nonna era giovane. Nessuna ammise mai di averlo portato.

Arianna Cecconi riesce, dove altre autrici hanno fallito, a trasportarci in un regno femminile colmo d’amore e attenzioni, nonostante i segreti, le omissioni e le bugie.

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La mia critica appassionata

Questo è uno di quei romanzi, con “L’estate incantata” di Bradbury, che ho centellinato perché volevo non finisse mai. Mi piacerebbe, e lo dico con il cuore, che qualcuno dicesse a Arianna Cecconi quanto mi è piaciuto il suo romanzo, quante lacrime ho versato (ho pianto anche perché non scriverò mai così).

“Che cos’è il senso di colpa?” Pilar le aveva chiesto un giorno perché diceva che sulle sue montagne peruviane quella cosa non esisteva. “E’ quando ti lasci scavare dagli sguardi e dalle parole cattive, e ti convinci che sono vere. Quando accusi la tua bocca di stare zitta e di non ribellarsi alla calunnia. Quando sai che la tua tristezza è contagiosa, ferisce chi ami, ma non puoi farne a meno.”

Ho sofferto e tifato per tutte le donne del racconto, soprattutto per Flora, Pilar e Teresa. Mi sono immersa completamente nella narrazione. Ho sentito l’odore della casa del fico; ho atteso il segreto delle “ricette” andine; ho apprezzato l’animismo di cui si nutre il romanzo. Sono sempre stata attratta dalla teoria “del guscio e della seta” (mia nonna materna lavorava nei bachi da seta), e trovare certe analogie mi ha fatto sentire “compresa”. Ho amato gli oracoli di Teresa: quello scritto sulla pelle, quello portato dal vento, quello fatto di nebbia e quello che diviene fulmine. Mi sono rivista nelle donne di questa grande famiglia, forse perché anch’io do un nome ai luoghi, alle stanze, alle cose o mi circondo di ninnoli, piume, ali, sassi, conchiglie, ossa, fossili e ricordi. O forse perché, come le protagoniste, sono fatta di bozzoli, vento, terra e sabbia. O, ancora, perché in un’altra vita avrei voluto fare l’antropologa come l’autrice.

Regalai non so a quante persone “L’estate incantata” di Ray Douglas Bradbury, la maggior parte non vedevano/vedono quello che vedo io. Pensavo che avrei cambiato idea, come, è accaduto con “Kitchen” di Yoshimoto o “Seta” di Baricco (per chi non lo sapesse a me piace Baricco), invece “L’estate incantata”, nonostante siano passati più di trenta anni, è rimasto il mio libro preferito. Ancora oggi cito alcuni episodi come “la macchina della felicità” o “il drago che ha inghiottito il cigno”, e ancora oggi per descrivere qualcosa utilizzo: “aveva quel certo tocco”.

Era una mattina tranquilla e la città era ancora avvolta nel buio, infilata a letto. Il tempo diceva che era estate: il vento aveva quel certo tocco e il respiro del mondo era lungo, caldo e lento.

Forse si è semplicemente portati… “Teresa degli oracoli” mi somiglia, come mi somigliava “L’estate incantata” di Bradbury quando avevo l’età di Douglas Spoulding. Forse amiamo certe letture, perché, in fondo in fondo, parlano di noi.

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Su “A piedi nudi – Facebook” – giorni fa – la mia quasi critica di pancia

Teresa dormiva come i delfini che hanno il cervello diviso a metà. Metà dormono e metà nuotano, metà stanno in fondo al mare e metà si spingono verso la superficie. Anche la nonna metà sognava e metà ci ascoltava, metà dormiva e metà vegliava su di noi. Fuori aveva gli occhi chiusi, e dentro erano aperti.

Non so, mi meraviglio sempre che certe scrittrici, come Carys Davies (il suo “West”mi rapì) e Arianna Cecconi non siano famose quanto Isabel Allende. Non capisco il successo di alcuni libri come “Va dove ti porta il cuore”, “Twilight” o “L’uomo che sussurrava ai cavalli”. Per me, e sottolineo per me, sono più scandalosi delle “sfumature”. Vabbè, i gusti sono gusti e quelle cose là. Non capisco le critiche scialbe, dove una tizia scrive che Arianna Cecconi ha una scrittura semplice. Semplice? “Il vento accarezza i rami degli alberi” è una frase semplice o “la mamma compra il latte” è un periodo semplice. Soggetto predicato e complemento. La mia, cazzo, è una scrittura semplice (sempliciotta, va), non quella di Arianna, che ha pure un bel nome che inizia per A e finisce per A (cose mie). E io mi incazzo come un’Ape 🐝, per questo, da che mondo è mondo, di rado parlo di cinema (ci metto troppa passione) e di letteratura. Che poi, a parte qualche eccezione, certi critici, dio santo, quando leggono che leggono? Ok, faccio un bel respiro. Dove ero rimasta? Sto leggendo questo piccolo, grande gioiello, che è qualcosa di miracoloso. Non è “eccessivo” come “La donna degli alberi”. Arianna Cecconi non ha una scrittura iperbolica come quella di Marone (che per carità ho amato, ma talvolta è fine a se stessa, e lo dice una logorroica) ma manco è “semplice”, perché semplice in questo caso suona come un’offesa. È poesia, come quella di Marquez, Allende o Erri De Luca. Respiro. Leggenda. Amore. Poesia. Che meraviglia.

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Grazie Arianna, di cuore. Grazie davvero.


Per i commenti: https://apiedinudi.blog/2021/05/03/teresa-degli-oracoli-di-arianna-cecconi/

Il ballo delle pazze di Victoria Mas



Eugénie, Geneviève, Thérèse e Louise, pur avendo trascorsi differenti, sono accomunate dallo stesso destino: l’ospedale della Salpêtrière. In quel manicomio femminile ci finiscono soprattutto le donne rifiutate, e poi dimenticate, dalla famiglia e dalla società: le vedove, le prostitute, le violentate, le reiette, le scomode e le anticonformiste. La loro sorte è stata decisa dagli uomini.

L’autrice ne “Il ballo delle pazze” racconta il mondo femminile di una Parigi di fine ottocento (1885), un mondo in cui alle donne non è permesso esprimere un’opinione, parlare in pubblico e alzare la testa. L’ospedale della Salpêtrière è a servizio del romanzo e dei personaggi. Jean-Martin Charcot e Joseph Babinski, accennati più volte nel libro, sono realmente esistiti. Entrambi medici, insegnarono presso l’ospedale di Salpêtrière. Charcot si interessò all’isteria, tra le sue pazienti ci fu una certa Louise Augustine Gleizes. La donna venne molestata a dieci anni e violentata dall’amante della madre a tredici. Fu più volte ipnotizzata dal noto medico francese, e fotografata, per dimostrare la presunta isteria. Quando Gleizes non accettò più di essere ripresa, venne messa in isolamento. Nel 1880 scappò dall’ospedale, travestita da uomo. I fatti reali del manicomio si mescolano in questo romanzo, che Victoria Mas racconta con una scrittura* diretta, scorrevole e asciutta. Il manicomio diventa, così, nelle mani della scrittrice, un luogo di aggregazione, una sorta di casa, per quelle donne escluse da una società misogina e incapace di amare.


Louise, che in qualche modo riveste i panni della giovane Augustine, è la cavia della scienza, dove gli spettatori sono ancora una volta uomini. Thérèse potrebbe essere una delle prostitute descritte da Zola. Eugénie è la donna emancipata, pronta a combattere per un nuovo mondo, mentre Geneviève è il confine tra il passato e il futuro.


*Ho apprezzato l’uso del “presente”.

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Appunto – fine ottocento

Tra suggestioni medievali, languori romantici, incanti mostruosi e regole ottocentesche, la donna, nonostante i primi accenni di emancipazione femminile, è percepita come musa o meretrice, moglie o religiosa. Perfino l’isteria è visto come un disturbo dell’utero, tanto da spingere i medici ad optare per “l’isterectomia”. Metodo utilizzato anche per sconfiggere la sindrome premestruale, all’epoca definita “malinconia mestruale”. Nel 1843 Charles Clay, a Manchester, esegue la prima isterectomia addominale, senza anestesia. Il medico sostiene di non utilizzare il cloroformio, giacché una donna capace di gestire il dolore recupererà più velocemente. La paziente muore di emorragia.

Quando leggiamo queste storie di ordinaria follia, non dobbiamo stupirci dell’ambiente misogino in cui si muovono le protagoniste: mogli, amanti, figlie, sorelle.

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Per commentare, trovate il post su A piedi nudi: https://apiedinudi.blog/2021/04/23/il-ballo-delle-pazze/

giovedì 15 aprile 2021

Il sogno di Nova


Il sogno di Nova” è un superbo racconto di genere. Massimo Valentini utilizza il tipico linguaggio fantascientifico per descrivere un mondo abitato da macchine e esseri umani robotizzati. I protagonisti, Nova e Maximilian, si muovono sotto una pioggia perenne tra ologrammi, capsule oniriche, piante marziane e braccia meccaniche. Siamo nel 2446, gli esseri umani convivono con le macchine e sono essi stessi in parte degli “automi”.

Lo scrittore si chiede cosa sia un essere umano. Indaga sui sentimenti e le emozioni del singolo rispetto alla realtà che lo circonda. Maximilian è “un intero”, non ha organi artificiali, braccia o mani robotiche, né si è fatto installare un sistema per il controllo delle emozioni. Nova è una creatura diversa sia dagli esseri umani che dalle macchine. Entrambi, per motivi differenti, fuggono da una società ostile.

“Il sogno di Nova” potrebbe essere, per l’atmosfera, una costola di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” (conosciuto anche come “Il cacciatore di androidi”) di Philip K. Dick (da cui è stato tratto il film “Blade Runner”), ma anche un episodio di “Electric Dreams”. Sebbene non mi piaccia cadere nella trappola dei paragoni, è difficile non vedere nella scrittura di Valentini l’universo creato da Dick. Pur non essendo un’esperta di fantascienza, ho ingoiato “Il sogno di Nova” nel giro di poche ore. Valentini è uno straordinario narratore, riesce a condurti all’interno della scena, che sia di azione o romantica poco importa, ti ritrovi scaraventato nel suo mondo. E’ uno scrittore puro.

Un vento sottile correva per la strada deserta il cui asfalto, lucido di pioggia, riluceva sotto i raggi lunari. I caleidoscopici cespugli di xenorose oscillavano con movenze spettrali nel giardino ben curato, rischiarando le sagome degli alberi imponenti che svettavano ai lati del muro di recinzione.

La fantascienza, a differenza di altri generi, ha la capacità di farci ragionare. Negli anni cinquanta del novecento ci si domandava se era etico migliorare le parti del corpo. Inizialmente la chirurgia estetica serviva a ricostruire zone danneggiate, compromesse (rinoplastica, mastoplastica ecc) per incidenti o malattie. Oggi si ricorre soprattutto per abbellire e modificare quello che non piace, anche con iniezioni di botulino e collagene. “Il sogno di Nova” racconta la vanità dell’essere umano, della sua inadeguatezza e fragilità. Cosa ci rende umani? Cosa lasciamo al nostro passaggio?

Questo libro merita di essere letto.

Mentre scivolava nell’incoscienza gli piacque pensare a quella figura come all’ultima donna sulla Terra senza acciaio né plastica, con un cuore vero. Un’illusione, era solo questo. Eppure, anche se per pochi istanti, si lasciò curare dall’idea che fosse reale e si assopì dolcemente.

In alcuni punti mi ha ricordato il buon vecchio Bradbury (non sono di parte 😉 ).


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Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.

Fahrenheit 451 di Ray Douglas Bradbury

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Links:

https://www.facebook.com/Massimo-Valentini-Scrittore-e-Reporter-freelance-487697327964088

https://www.saggeseeditori.it/fantascienza/il-sogno-di-nova/?fbclid=IwAR28555O1–zUeYmmFZ9BIl28-QIeJJzY85W9DJ0ItRh-Hv7zbUeaKhTPWY


IL SOGNO DI NOVA:

Casa Editrice: Saggese Editore

Progetto grafico ed impaginazione: Luca D’Argenio (copertina stupenda. Non è il mio genere, ma è stupenda).

mercoledì 7 aprile 2021

Verso un'altra estate di Janet Frame

Grace Cleave abita a Londra. I capelli stanno prendendo il colore della polvere. Il suo romanzo è fermo da tempo, qualcosa si è intromesso nella sua vita. Philip Thirkettle la invita a trascorrere un fine settimana a Relham, senza sapere che alla donna non piace stare in mezzo alla gente. Così si ritrova a dividere lo stesso spazio con un marito, una moglie e due figli. Col passare del tempo Grace si trasforma in un uccello migratore…

Frame fu internata per otto anni in un istituto psichiatrico, dopo una diagnosi per schizofrenia. Grazie ai suoi racconti scampò alla lobotomia. “Verso un’altra estate” è il romanzo che Janet Frame vietò di rendere pubblico perché troppo intimo.

“Un fine settimana a Relham, con Philip Thirkettle, sua moglie Anne, il padre di lei, Reuben, e forse – Grace non lo sapeva – uno o due figli: sembrava la promessa di un incubo”.

Janet Frame mette la propria vita a disposizione del romanzo. La sua è una scrittura personale, poetica, sensibile, colma di riflessioni. Intravediamo, attraverso gli occhi di Grace, lo stato d’animo della scrittrice.

In Nuova Zelanda ero una matta conclamata. Tornare indietro? Mi hanno consigliato di vendere cappelli per la mia salvezza”.

In “Verso un’altra estate” la protagonista è incapace di immergersi nella società, eppure ne coglie il linguaggio, i gesti. E’ attenta alle piccole cose, alle azioni quotidiane a cui non diamo importanza. Grace si sente fuori luogo, osserva e soppesa le parole. Teme di essere scoperta, di deludere. In perenne stato di allerta, crede di non sapere comunicare con le altre persone.

Quando avvertì che gli attimi, dopo aver formato un perimetro senza via di fuga, si stavano gradualmente schiudendo nei tipici incisi del sabato mattina. Grace scivolò fuori da una fessura tra due attimi, mormorò qualche scusa e fuggì nella sua stanza”.

La scrittura di Janet Frame è un oceano di parole e pensieri. Un momento ti trovi nella fredda Inghilterra, un attimo dopo in Nuova Zelanda. L’autrice è in grado di afferrare i diversi stati d’animo delle persone, di entrare dentro le cose.

Rieccola in Nuova Zelanda. Ricordava le kumara, dolci e levigate come l’oro, e il cesto di lino che il vecchio Jimmy aveva dato al loro padre…”.

I suoi flussi di coscienza, così liberatori e profondi, ricordano quelli di Virginia Woolf. La sua lirica rimanda ad Alda Merini e Sylvia Plath.

Una cattedrale, una casetta, una stazione ferroviaria, un hangar? E’ troppo alto per vederne la struttura, il cielo di velluto si smorza nella nebbia, il quotidiano con il suo inserto, l’inserto nell’inserto (ah il technicolor!) riposa pesante sul piede e sul cuore”.

Ma, forse, sarebbe più corretto dire che Janet Frame è solo, si fa per dire, Janet Frame.

Il ruolo di poeta, naturalmente, apparteneva alla madre di Grace la quale, forse per la povertà della famiglia, forse per la propria convinzione di come funzionava la mente di un poeta, insisteva nel dire che le poesie migliori venivano sempre scritte sul retro di una busta da corrispondenza, o su pezzetti di carta strappati da una lettera”.

La mucca ebbe un vitellino e quando aveva poche settimane venne a vederlo un uomo, che disse: Non è ancora abbastanza grande. Io dissi: Per cosa? Mio padre disse: Non ficcare il naso in cose che non ti riguardano, ma l’uomo, senza riflettere, rispose: Il mattatoio. C’erano i matti al mattatoio?”.



 

sabato 29 agosto 2020

Il destino di Alice di Simona Matarazzo

 Il destino di Alice - il mio nuovo racconto

(in copertina flessibile e kindle)





Alice si trasferisce a Borgo, cercando di lasciarsi alle spalle un mondo a cui sente di non appartenere. Lì, in quel paese sperduto tra i monti, incontra un uomo misterioso. Segreti, lupi e antiche profezie cambieranno per sempre il destino di Alice.
Alice e James, due creature fuori dagli schemi, si incontrano e si amano.
“Ad un tratto sentii un rumore. Mi girai e lo vidi! Un grosso lupo nero mi stava fissando. Da principio ne ebbi timore, poi una strana calma si impossessò del mio corpo. Nonostante amassi la neve e le foreste, non facevo parte di quelle terre e non mi azzardai a muovermi...”
"... A un certo punto mi ritrovai davanti a un cancello semi aperto. Non potei fare a meno di entrare. Al suo interno l'aroma pungente delle siepi si fece spazio nelle mie narici. Giunta al centro di quella specie di labirinto, mi ritrovai in un boschetto con giganteschi alberi, rocce e ruscelli. Ogni angolo dall'apparenza selvaggia, ogni foglia o ramo, erano curati nei minimi dettagli. C'erano aiuole, stagni e voliere. Più in là archi, statue, panchine di pietra. “Non può essere!”, esclamai meravigliata. Una porta di betulla seminascosta tra i cespugli attirò la mia attenzione. Aveva una finestra tonda come quelle delle favole. “Ma dai!”, dissi a voce alta. Spinta dalla curiosità e da un'irrefrenabile euforia, la aprii. All'interno trovai un altro giardino. Camminai in mezzo ad antichi vasi e annaffiatoi in ghisa. Oltrepassai una serra con fiori appesi e orchidee. Ero così presa ad ammirare il giardino, che per poco non andai a sbattere contro una statua..."
... Fuori dalle mura imboccai un sentiero. La neve non era tanto alta e il bosco, a differenza di quello di Rio Freddo, era ben tenuto. Camminai in mezzo a quella pace mentre i rami scricchiolavano nell'aria gelida. Mi sedetti su un tronco e chiusi gli occhi. D'un tratto avvertii un rumore. Mi alzai di scatto per capire da dove provenisse. Non feci in tempo a fare due passi che mi trovai dinanzi ad un lupo grigio. Non potevo andare da nessuna parte: alberi e tronchi mi impedivano la fuga. Rimasi immobile.
Il lupo cominciò ad avanzare, digrignando i denti.
“Non si muova! È ferita?”, gridò una voce. Era quella di James Forster.
“Sto bene”.
“Shh”, disse.
“Ok!”, risposi con veemenza.
“Non sto dicendo a lei ma al lupo!”.
James Foster si avvicinò all'animale e allungò il braccio proprio davanti al muso. Poi iniziò a parlargli in una lingua oscura, remota. Il lupo grigio si accucciò e gli leccò la mano.
“Come diavolo ha fatto? Cosa gli ha detto?”.
“Di non mangiare le ficcanaso”....


sabato 22 febbraio 2020

Al tempo dei lupi - Alla ricerca di Agata - due racconti pubblicati su Amazon

Alla ricerca di Agata

Raggiunsi a passo svelto la pensione e corsi nella mia stanza. Tirai la tenda e gettai il cappotto e la sciarpa sul letto. Senza riflettere presi il portatile dalla valigia e iniziai a digitare il nome Douglas MacFarlane sulla tastiera. Avevo i muscoli tesi, le mani ghiacciate e il cuore che mi batteva velocemente nel petto. Fuori, da qualche parte, c’era uno sconosciuto che, nonostante i modi signorili, dichiarava di chiamarsi come il protagonista del mio romanzo. E questo fatto, più che sorprendermi mi inquietava. Storie di fan che inseguivano lo scrittore o l’artista di turno si sentivano ogni giorno. Mi misi uno scialle sulle spalle. Tremavo. L’orologio appeso nel corridoio della pensione batté le quattro. Presto avrebbe fatto buio.
Attraversammo un lungo corridoio. Su alcune pareti si potevano vedere tracce di intonaco colorato. Mobili antichi, vecchi quadri e arazzi arredavano l’ambiente. Con un po’ di fantasia immaginai l’epoca in cui giullari, attori e musicisti intrattenevano i signori, mentre i cavalieri sostavano nelle loro armature scintillanti.
Lo studio era un'ex cappella sconsacrata. Il camino, in stile neogotico, conteneva ricche e bizzarre sculture. Vicino alla finestra spiccava un piccolo bacile decorato con finissime decorazioni, un tempo utilizzato per le funzioni religiose.
I tetti a punta e le pareti dipinte di nero le donavano un aspetto lugubre. Era appartenuta al giudice Jonathan Corwin, che l'aveva acquistata nel 1675. L'interno, come prevedevo, custodiva alcune testimonianze del diciassettesimo secolo. Ma nulla di tutto ciò, per quanto coinvolgente, mi era di aiuto.
Salem era un luogo in cui il turista veniva catapultato per gioco nella stregoneria. Dell'oscuro passato rimanevano i gadget horror nei negozi a tema. Pozioni e ingredienti magici traboccavano dalle vetrine.
I musei, come il Salem Witch Museum, riproducevano con precisione certosina gli episodi terribili della caccia alle streghe. Tuttavia, non venni a capo di nulla. Neppure le guide locali mi furono di aiuto.


Il tempo dei lupi

Nel cuore della notte fui svegliata da un suono, insolito e tetro. Pensai che fosse il rumore del vento, quando tutto ad un tratto sentii qualcosa accarezzare la porta della mia camera. Come un picchiettio, da prima tenue, poi sempre più forte.
Udii distintamente dei passi e nuovamente quel ticchettio. Mi infilai velocemente uno scialle, accesi una delle candele e aprii con circospezione la porta. Non c'era nessuno.
Poco dopo mi parve di cogliere un mormorio e poi dei passi in fondo al corridoio. Camminai a tentoni, nella semi oscurità, nel tentativo di dare una forma a quei suoni, mentre il pavimento scricchiolava sotto ai miei piedi.
Le bambine sciamavano in cortile per l'intervallo, seguite dallo sguardo severo dei signori Stone e Gardner. Io mi incamminai lungo le siepi che costeggiavano una chiesetta abbandonata da anni, in cui una parte del soffitto rivelava un brandello di cielo. Più in là, oltre il cancello e una bordura di rose, si intravedevano i tetti a punta di Lago di Mezzo. Mi appoggiai a un albero per assaporare la pace di quel luogo. Non si sentiva nessun rumore, se non qualche gridolino in lontananza. Fu in quell'istante che vidi un uomo, di media statura e piuttosto magro, sbucare dalla selva sottostante.
La sera prima aveva piovuto e sui lati del sentiero si affacciavano numerose pozzanghere, coperte da un sottile velo di ghiaccio. Avanzavo a fatica a causa del fango e delle sterpaglie. Si alzò una folata di vento. Guardai il cielo: era gremito di nuvole grigie. Presto avrebbe fatto buio e del signor Brandon non c'era traccia.
Mi appoggiai ad una roccia di granito, esausta, con le scarpe infangate. Avvertii il suono di rami spezzati e istintivamente mi nascosi dietro a un albero, proprio all'entrata del bosco.


SimonaEmme


Io, Tituba strega nera di Salem



Tituba è nera, schiava e per di più donna. Per questo motivo è stata annullata dalla storia, dimenticata in quasi tutti i racconti su Salem. Eppure, il suo personaggio non è irrilevante, se guardiamo gli atti processuali.
La scrittrice ci presenta una donna moderna, ricca di sfumature. "Io, Tituba strega nera di Salem" è la storia di una schiava, una reietta, di un'ultima.
La madre finisce impiccata per mano di un padrone bianco, e, senza genitori, Tituba impara l'arte della magia grazie ad un'anziana.  Per lo schiavo John Indian abbandona la sua vita di semi libertà. Questa scelta la condurrà dai Caraibi a Salem.
Maryse Condé non ci rassicura, né ci racconta la solita storiella condita di incanti e impreziosita di buoni propositi. Tituba ama gli uomini e ama fare all'amore. Tituba è una strega. E' una donna. Un essere umano.
Ero dall'altra parte dell'isola a consolare una schiava il cui compagno è morto sotto le torture. L'hanno flagellato. Hanno messo del peperoncino sulle piaghe, poi gli hanno strappato il sesso.
Il romanzo narra la vita degli ultimi, di quegli uomini e di quelle donne, spesso, dimenticati dalla storia.
Io non ho conosciuto l'infanzia, L'ombra della forca di mia madre ha oscurato tutti gli anni che avrebbero dovuto essere consacrati alla spensieratezza e ai giochi. Per ragioni senza dubbio differenti dalle mie, intuii che Betsy Parris e Abigail Williams erano state private anch'esse della loro infanzia, di quel capitale di dolcezza e di leggerezza. Intuii che nessuno aveva mai cantato loro delle ninne-nanne, raccontato delle storie, nutrito l'immaginazione...
Il libro è un piccolo universo di volti, carezze, schiaffi, paure, lacrime, incubi, rinunce, sacrifici, ingiustizie, furore, ribellione, amore. Gli uomini giustificano i propri pruriti e istinti, nascondendosi dietro la maschera della religione, definendo peccato tutto ciò che è diverso e naturale.
Ognuno doveva confessare ad alta voce i peccati commessi durante il giorno e sentivo le povere bambine balbettare: "Ho guardato John Indian ballare sul ponte". "Mi sono tolta la cuffia lasciando che il sole mi carezzasse i capelli."
Immagina una piccola comunità di uomini e di donne schiacciati dalla presenza del Maligno, che cercano di braccare in tutte le sue manifestazioni. Una vacca che moriva, un bambino che aveva le convulsioni, una ragazza che tardava ad avere il suo flusso mestruale erano materia di infinite speculazioni.
"Ah sì, i gatti! Ce ne sono dappertutto a Salem. Ne uccidiamo di continuo."
"Tituba, sai che significa essere un ebreo? Nel 699 i Merovingi di Francia hanno ordinato la nostra espulsione dal loro regno. Dopo il IV concilio, quello di papa Innocenzo III, gli ebrei hanno dovuto portare un marchio circolare sui vestiti e coprirsi il capo. Riccardo Cuor di Leone, prima di partire per la crociata, ordinò un assalto generale contro gli ebrei. Sai quanti di noi hanno perso la vita sotto l'Inquisizione?"
"Non potei trattenermi e l'interruppi: "E noi, lo sai tu quanti di noi insanguinano, da sempre, le coste dell'Africa?"


La scrittrice ci rivela la vita di una schiava, l'angoscia nel dare alla luce una creatura. Soprattutto ci fa intendere che gli uomini, nel bene o nel male, hanno una vita meno dura.
Durante tutta l'infanzia avevo visto schiave assassinare i loro neonati (...) Durante tutta l'infanzia avevo udito schiave scambiarsi ricette di pozioni, lavande, iniezioni che sterilizzano per sempre le madri e le trasformano in tombe tappezzate di sudari scarlatti.
"Bianchi o neri, la vita li serve troppo bene, gli uomini!"
"Io Tituba, strega nera di Salem" non è un romanzo per tutti. Ci vuole cuore e stomaco.
"... a sedici anni mi hanno data in moglie a un reverendo, un amico di famiglia che aveva già seppellito tre moglie e cinque bambini. Il puzzo della sua bocca era tale che, per mia fortuna, appena si chinava su di me svenivo. Tutto il mio essere gli si rifiutava, eppure mi ha fatto fare quattro bambini ch'è piaciuto a Dio di portare via dalla terra. A Dio e anche a me! Perché mi era impossibile amare i figli di uomo che odiavo..."

La scrittrice, come altre prima di lei, ci conduce per mano nella testa delle accusatrici, nelle paure più profonde, nell'oscurità dell'animo umano, che Kurtz  chiamava "l'orrore!"
Uno degli uomini si sedette a cavalcioni sopra di me e cominciò a martellarmi il viso di pugni, duri come pietre. Un altro mi tirò su la gonna e infilò un bastone appuntito nella parte più sensibile del mio corpo, schernendomi...
La scrittura, a tratti onirica, ci fa comprendere più da vicino Tituba e la stessa Condé. Quel tipo di scrittura che hanno le donne quando sanno narrare di altre donne e dei piccoli segreti che scaldano il cuore.
Riempivo una piccola ciotola d'acqua che poi mettevo alla finestra in modo da poterla guardare anche muovendomi per la cucina e ci rinchiudevo le mie Barbados. Riuscivo a farcele stare dentro tutte, con l'ondeggiare dei campi di canna da zucchero che prolungava quelle delle onde marine, i cocchi inclinati verso la riva del mare e i mandorli nostrani carichi di frutti rossi o verde scuro. 
Per me Salem è quasi un ossessione. Forse, come Arthur Miller, credo che il timore e il sospetto siano in grado di spazzare via tutto ciò che non è considerato "normale", "ordinario", "giusto". Ho paura della paura.
Quasi 20 anni fa lessi un libro "Il viaggio della strega bambina", di Celia Rees, che mi catapultò in questa realtà. Più tardi, caddi nelle braccia di Elizabeth Gaskell. Tre scrittrici, tre donne, tre visioni differenti. Rees racconta anche il mondo degli indiani d'America; Gaskell, pur essendo una scrittrice vittoriana, trascina il lettore in un ambiente claustrofobico seicentesco; Condé ha una scrittura talmente viva e passionale che è difficile uscirne "illesi".



"Io, Tituba strega nera di Salem" mi ha ricordato "La favorita", film di Yorgos Lanthimos. Ho pensato immediatamente alla Regina Anna e alla sua sofferenza. "La favorita" non lascia spazio alla pietà.

Dal film "La favorita"


Le protagoniste combattono come uomini in un mondo di uomini. E soccombono. E tutti quei bambini perduti - quelli della Regina Anna e quelli del romanzo di Condé -, portano con sé tanta solitudine.



***

Dal film "La seduzione del male"

A Salem, prima dei processi contro le streghe del 1692, i Putnam e i Porter sono ai ferri corti. La famiglia Porter gode di un certo successo economico, mentre ai Putnam le cose non vanno bene, anzi sostengono che il loro declino finanziario derivi dall'avidità e dalla popolarità degli ultimi arricchiti. I Putnam sono dei semplici agricoltori che seguono le regole dei puritani tradizionali; mentre i Porter sono commercianti a tutti gli effetti, troppo individualisti secondo la mentalità di Salem. Nel 1672, una diga di proprietà dei Porter inonda le terre dei Putnam, aprendo tra le due famiglie un travagliato contenzioso, nello stesso anno in cui viene concesso il diritto di costruire una nuova chiesa. Al progetto, naturalmente, partecipano i Putnam, che attraverso la “Chiesa” auspicano di controllare l’intera comunità. A complicare le cose è l’arrivo di un nuovo reverendo, un certo Samuel Parris, figlio di un noto mercante delle Barbados, invitato dai Putnam. Parris è un sacerdote puritano, e quando giunge a Salem porta con sé una schiava, Tituba, che conosce i segreti della magia caraibica. A ragion del vero nessuno conosce le origini di Tituba, si sa soltanto che è stata comperata al mercato degli schiavi e che in alcuni testi appare con la pelle nera come l’ebano.
Qualche anno prima, nel 1689, il pastore puritano e medico John Cotton Mather (1663-1728) pubblica un libro in cui riporta una storia di stregoneria accaduta a Boston. Tre bambini iniziano a comportarsi in modo bizzarro dopo aver litigato con la lavandaia irlandese Mary Glover. Secondo Cotton Mather si tratta di stregoneria. Mary viene impiccata il 16 novembre del 1688, l’isteria che colpirà da lì a poco il Massachusetts è appena iniziata.
In inverno, tra il 1691 e il 1692, Elizabeth Parris figlia di Samuel Parris, di appena nove anni, e la cugina Abigail Williams, di undici, si comportano in modo strano. A detta dei testimoni, strisciano per terra, emettono versi bizzarri e, cosa più spaventosa, i loro corpi si contorcono assumendo posizioni disumane.
Dinanzi a questi fenomeni i medici non riescono a trovare una soluzione. Il primo a parlare di possessione diabolica è il dottore William Griggs, il quale sostiene che le bambine siano state stregate. A questa conclusione arrivano anche Samuel Parris, William Phips e William Stoughton.
Da lì a poco, altre adolescenti iniziano ad avere strani comportamenti, tanto da spingere gli abitanti del villaggio al passo successivo. Mary Sibley propone di cucinare la torta delle streghe, Witches cake, i cui ingredienti sono segale ed urina, e darla in pasto a un cane. L’animale, una volta mangiato l’intruglio, sarebbe in grado di riconoscere il responsabile del malocchio. Lo stratagemma non ottiene nessun risultato e a quel punto gli abitanti, sempre più impauriti, decidono di interrogare le vittime del sortilegio.
Le ragazze interpellate aumentano e oltre ad Abigail e Elizabeth si uniscono: Elizabeth Hubbard, Mary Walcott, Mercy Lewis, Ann Putnam Jr. e Susannah Sheldon.
Il tribunale è presieduto da William Stoughton, John Hawthorne, Bartholomew Gedney, Jonathan Corwin e altri magistrati illustri del Massachussets.
Durante il processo, le ragazzine rivelano che nei loro giochi spesso praticano la divinazione, anche grazie a Tituba, la schiava del pastore Parris. La prima ad essere accusata, infatti, è Tituba, la quale non nega di essere una strega, anzi dice di parlare con una sorta di demone. Durante le torture, Tituba fa il nome di altre donne, e, liberata da Samuel Conklin, scompare per sempre da Salem. Sarah Good, colpevole di essere una mendicante sopra le righe, e Sarah Osborne, responsabile di non aver lasciato gli averi ai figli del primo marito, vengono accusate di stregoneria. Ormai la caccia è aperta, ad uno ad uno i presunti colpevoli vengono messi a confronto con le ragazze, che si contorcono e puntano il dito. Tra gli arrestati c’è addirittura una bimba di quattro anni, Dorothy Good, figlia di Sarah Good. I giochi sono fatti, vengono imprigionati Abigail e Deliverance Hobbs, Martha Corey ed Elizabeth Proctor.
Martha Corey, allora settantaduenne, viene accusata nonostante sia conosciuta per le sue opere di pietà e partecipi attivamente alla vita di Chiesa. Quando insinua che le impossessate stanno mentendo, Ann Putnam Jr. e Mercy Lewis non ci pensano due volte ad accusarla di stregoneria. Ovvio che un animo raziocinante, come quello di Martha, è convinto che nessuno possa credere alle finte invasate, eppure durante il processo accade l’inevitabile. Le ossesse imitano i movimenti di Martha, come se lei stessa le manovrasse. Il dramma si compie sotto i suoi occhi, Mercy e Ann iniziano a urlare. Il 22 settembre del 1692 viene impiccata, qualche giorno prima, il 19 settembre, il marito Giles Corey riceve una morte ancora più brutale. Spogliato dei propri abiti, viene fatto sdraiare, con una tavola sul petto, e a quel punto, sotto lo sguardo non così atterrito dei vicini, gli posizionano rocce e pietre pesanti sul legno finché non muore stritolato.
Il pastore puritano John Cotton Mather incoraggia il proseguimento dei processi, esorta a punire i malvagi, parteggiando per i giudici. Descrive gli avvenimenti di Salem, presentando un quadro imparziale e di parte. Eppure Cotton Mather è un uomo di scienza, uno dei primi a sostenere l’inoculazione del vaiolo per combattere la malattia.
È assurdo immaginare che un’intera comunità possa arrivare a tanto, soprattutto quando i temibili accusatori assumono le sembianze di piccole creature. Tra le più crudeli querelanti c’è Ann Putnam Jr., di appena tredici anni. Anche lei conosce il gioco “venus-glass”, durante il quale si fanno cadere delle uova in un bicchiere di acqua, per tentare di scorgere il futuro. Le bambine dicono di aver visto una bara, può darsi uno spettro o ancora un demone. Forse sono impressionate dai racconti di Tituba, forse vogliono soltanto giocare. Sta di fatto che quando Elizabeth Parris scompare dalla scena, per non inquinare le prove, Abigail Williams e Ann Putnam Jr. diventano ancor più violente. Ann inveisce e infine accusa ben sessantadue persone.
In molti sostengono che Ann è uno strumento di suo padre, Thomas Putnam, del resto non è un caso che proprio le due famiglie più famose di Salem, i Putnam e i Porter, c’entrino qualcosa con la caccia alle streghe. Entrambe le fazioni hanno parenti e amici tra gli accusatori, i testimoni e i giudici. Fra gli storici, c’è chi sostiene che le due famiglie abbiano formato un cerchio di persone in grado di approfittarsi della testimonianza delle bambine, per eliminare la fazione avversaria.
Ann svolge il suo compito e lo porta a termine. Probabilmente non bastano le scuse del 25 agosto del 1706, né ci consola sapere che proprio Ann sia l’unica delle ragazze “indemoniate” a scusarsi per l’orrore arrecato.
Rebecca Nurse viene arrestata la mattina del 24 marzo del 1692. È inutile dire che la donna è reduce di lunga battaglia proprio con i suoi vicini di casa, i Putnam. Ed è per un pezzo di terra che viene arrestata e impiccata.
Le vittime di Salem sono una ventina: Bridget Bishop, Rebecca Nurse, Sarah Good, Elizabeth Howe, Susannah Martin, Sarah Wildes, George Burroughs, George Jacob, Martha Carrier, John Proctor, Giles Corey, John Willard, Martha Corey, Mary Eastey, Mary Parker, Alice Parker, Ann Pudeator, Wilmot Redd, Margaret Scott, Samuel Wardwell, Ann Forster (morta in prigione).
L’immaginazione dell’uomo è capace di creare meraviglie, ma anche incubi da cui ti vorresti svegliare.

Da un saggio che scrissi anni fa e che ho tolto da Amazon

SimonaEmme 

Ad Anna